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lunedì 1 settembre 2025
La democrazia come figlia della Rivoluzione francese, il trionfo della contraddizione
di Daniele Trabucco*
La democrazia moderna, così come si afferma a partire dalla Rivoluzione francese, non è riducibile a una semplice configurazione istituzionale, dal momento che rappresenta un intero paradigma antropologico e teoretico: un modo nuovo di concepire l’uomo, il diritto e l’ordine politico. Essa nasce dall’atto rivoluzionario del 1789, che ha spezzato definitivamente il legame tra il potere politico e l’ordine trascendente, sostituendo all’idea classica di giustizia, radicata nell’essere delle cose e nell’ordine naturale, il mito dell’immanenza sovrana, cioè della volontà che si autodetermina come unico fondamento.
L’elemento centrale di questa trasformazione è la nascita dei cosiddetti “diritti umani”. Essi si presentano come universali e inviolabili, proclamati come valori assoluti, anteriori e superiori a ogni volontà politica contingente. Tuttavia, la loro pretesa universalità è frutto di un artificio logico: non essendo radicati nell’ordine dell’essere, ma derivando da un atto di dichiarazione, questi diritti dipendono interamente dalla volontà che li pone. Sono universali perché affermati come tali, non perché fondati su una verità ontologica che li preceda e li sostenga. In questo senso, la loro “inviolabilità” è illusoria: ciò che una volontà può proclamare come intangibile, un’altra volontà, con diversa sensibilità storica o politica, può modificare, restringere o cancellare. I diritti umani moderni, pertanto, sono assoluti nella forma, ma relativi nella sostanza; sono presentati come eterni, ma vivono della contingenza di chi li afferma.
L’art. 2 della Costituzione italiana vigente del 1948 esprime perfettamente questa ambiguità. Esso dichiara che la Repubblica “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, ma ciò che viene riconosciuto non è l’ordine naturale delle cose, bensì la concettualizzazione moderna dei diritti come pretese soggettive. Il verbo “riconosce” non ha il senso classico di un atto intellettivo che scopre e accoglie ciò che già è, quanto quello moderno di una ratifica politica di enunciazioni che trovano in se stesse la loro ragione. Non si tratta di una scoperta, bensì di una fondazione mascherata. In tal modo, l’art. 2 sancisce la stessa contraddizione che si trova nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: diritti che si dicono universali, ma che hanno senso solo nell’orizzonte di una volontà storicamente determinata, ossia di una decisione contingente.
Questa impostazione segna la distanza radicale dal giusnaturalismo classico. Per Aristotele, Tommaso d’Aquino e la tradizione della scolastica, il diritto naturale è intelligibile perché l’essere è intelligibile: la ragione riconosce nell’ordine delle cose delle finalità e dei limiti intrinseci e il diritto non è altro che l’adeguazione della condotta umana a tale ordine. I diritti moderni, invece, sono concepiti come indipendenti dall’essere e dalla natura, posti dalla soggettività emancipata, che si afferma come misura assoluta. La loro universalità, priva di radice ontologica, non è che una universalità dichiarata, ossia un atto di volontà “storica” che si pretende vincolante per tutti.
Tuttavia, un diritto che esiste solo perché proclamato dipende, nella sua stessa esistenza, dalla contingenza di chi lo proclama. Ne deriva l’aporia fondamentale della democrazia moderna. Essa si regge su diritti che vogliono essere universali ma che non lo sono se non in quanto imposti da una decisione politica. Vive di un paradosso permanente: assolutizzare ciò che è contingente, rendere eterno ciò che è storicamente determinato, proclamare come dato ciò che è posto. Così, i diritti umani non sono strumenti di accesso a un ordine naturale e trascendente, riducendosi ad enunciazioni autoreferenziali, il cui carattere vincolante dipende dalla mutevolezza delle maggioranze e dalle ideologie dominanti.
In questa prospettiva, la democrazia figlia della Rivoluzione francese appare come un sistema che si nutre delle proprie contraddizioni. Essa proclama libertà e uguaglianza, eppure la libertà assoluta si dissolve nell’omologazione e l’uguaglianza assoluta distrugge la differenza reale; afferma la sovranità popolare, ma questa è priva di fondamento ontologico e si riduce al calcolo numerico; rivendica l’universalità dei diritti, ma questi dipendono sempre e solo dalla contingenza della volontà.
La democrazia non è, dunque, la realizzazione della ragione politica, bensì il trionfo della contraddizione: un ordine che si presenta come universale pur restando prigioniero dell’immanenza e che proclama diritti inviolabili pur essendo sempre pronto a ridefinirli. Mi sarei aspettato (è ironico ovviamente) un discorso di questo tipo al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, non le banalità cui abbiamo purtroppo assistito. Del resto: queste piacciono perché rassicurano; le verità pesano perché obbligano a pensare.
*professore stabile di Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario San Domenico di Roma. Dottore di ricerca in Istituzioni di Diritto pubblico nell’Università degli Studi di Padova
Fonte: La democrazia come figlia della Rivoluzione …
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